E un giorno mi svegliai, di Francesco Toscano. Primo Capitolo - Seconda parte.

21 ottobre 2012

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Un malachim nell'arte sumerica. (Fonte: dalla rete.)


1.1. Nell’astronave dei Malachim.


Aprii gli occhi. Un forte mal di testa mi attanagliava le meningi. Cercai di alzarmi e mettermi in piedi ma non ci riuscii. Che cosa mi era successo? Chi o che cosa mia aveva ridotto in quello stato? Perché non riuscivo a muovermi ed agire? Non ricordavo quasi nulla di ciò che mi era successo, a parte quella voce che avevo udito provenire dall’esterno dell’abitacolo della mia autovettura, ferma nel margine destro della carreggiata della strada che stavo percorrendo per recarmi nel comune di residenza ed infine presso la mia abitazione, dove avrei riabbracciato i miei cari che mi attendevano dopo un giorno di duro ed intenso lavoro. Cercai di girare la testa dapprima verso destra ed in seguito alla mia sinistra, senza riuscirvi. Volevo capire, comprendere, cercare di essere pronto nel caso in cui qualcuno o qualcosa mi avesse voluto ferire, percuotere. Abituato negli ultimi anni a tenere sempre alta la guardia, era la prima volta che mi sentivo inerme e succube di una forza immensa e a me sconosciuta che mi privava della mia libertà di locomozione. Dal collo, passando dalla vita, sino ad arrivare agli alluci dei piedi, il mio corpo era paralizzato. Una voce entrò a quel punto violentemente nella mia mente, rimbombando come il suono proveniente da una cassa acustica rotta: «Stai fermo! Più cerchi di muoverti e ti agiti, e maggiormente avvertirai quei malesseri che il tuo corpo mettono in evidenza agli occhi di chi ti sta osservando.»
Non capivo chi fosse a parlarmi. Il fatto che udivo quella voce direttamente nella mia mente e non con le mie orecchie, mi fece arguire che si trattava di un’entità che comunicava con me telepaticamente. Ma chi era?
Nel luogo in cui mi trovavo, forse perché non riuscivo a muovermi, trovandomi certamente in uno stato catatonico, non mi sembrava che vi fosse qualcuno.
Ad un tratto, mentre cercavo di alzare il torace e consentire alla testa di avere una visuale migliore rispetto a quella che avevo in una posizione che a primo acchito mi sembrò essere orizzontale, un’altra voce entrò prepotentemente nella mia mente, simile a quella che avevo udito poco prima, ma appartenente ad un’altra entità che sicuramente doveva trovarsi all’interno del luogo in cui anch’io mi trovavo, dicendomi, quasi a voler rivelare la sua natura e nello stesso tempo presentarsi, le testuali parole:
«Nella tradizione ebraica noi angeli, Malachim[1], non eravamo esseri spirituali, ma figure potenti e talora pericolose, non ben distinte dagli elohim, gli dèi: pensa, ad esempio, all’angelo contro cui lottò Giacobbe-Israele, dai più interpretato come uno spirito del luogo. Israele, infatti, significa “colui che lotta contro un dio”.»
«Noi Malachim fummo descritti con connotati non molto diversi da quelli degli uomini: mangiavamo, bevevamo, concepivamo desideri umani. Quando gli Ebrei vennero in contatto con la cultura persiana, gli angeli cominciarono a spiritualizzarsi. Zarathustra[2], infatti, credeva che gli ahura fossero spiriti della luce, alleati del dio del bene, Ahura Mazda[3], mentre i Deva[4] erano i demoni al servizio di Ahriman[5], il dio del male.»
Ed io gli dissi: «Chi siete? Che cosa volete da me? Ma che cosa mi state raccontando? Io non vi capisco! »
Urlai, disperato, come se qualcuno potesse udire il mio lamento e venirmi in soccorso. Cercai di elaborare velocemente nella mia mente il pensiero che l’essere mi voleva comunicare, ma non riuscii a comprendere le sue parole.
Continuai ad urlare e a dimenarmi nel tentativo di liberarmi. Mi fu sin da subito chiaro che ero impotente ed in balia di quegli esseri che non vedevo e che parlavano e comunicavano con me attraverso la forza della mente.
Finalmente ripresi coscienza e fui in grado di capire meglio e di vedere quegli esseri che circondavano il lettino in cui mi trovavo disteso, come se fossi stato soccorso e trasportato d’urgenza con una barella in una sala operatoria di un ospedale all’avanguardia.
Un brivido freddo percorse la mia schiena allorquando degli occhi neri, a mandorla, incastonati in una testa per me informe, dalla forma oblunga, mi fissarono. Riuscivo a vedere la mia immagine riflessa in quegli occhi neri come se mi fossi specchiato. In quello sguardo nessun segno d’umanità, nessun sentimento, nessuna pietà per quella cavia di laboratorio a cui mi sentivo di somigliare.
Malgrado quella figura mi ricordasse un entità che il mio cervello aveva associato ad un alieno Grigio di razza Alfa[6], ero certo che non mi avrebbero torto neanche un capello.
L’essere che mi guardava aveva la pelle liscia, di colore grigio bluastro; mi sembrò che fosse poco più basso di un adolescente dodicenne, e ad occhio e croce fra il metro e cinquanta ed il metro e cinquantacinque.
Sembrava abbigliato con una tunica bianca, da cui fuoriuscivano due braccia lunghe e penzolanti, che si estendevano fino a circa sette centimetri al di sopra delle ginocchia, alle cui estremità una mano a sei dita che, roteando velocemente poco sopra la mia testa, cercava di afferrare uno strumento da punta e taglio, o un bastoncino in metallo che lo strano essere mi sembrò volesse raccogliere per colpirmi ed evitare che io mi continuassi ad agitare.
Tutte le dita delle mani e dei piedi erano evidenziate. Fra il primo e il secondo dito delle mani e dei piedi erano presenti residui di membrana interdigitale.
Le orecchie erano parzialmente formate. Lembi della pelle erano state asportati dalla superficie del cuoio capelluto nell’evidente tentativo di dare l’impressione di un orecchio più sviluppato di quanto non fosse in realtà. Le labbra apparivano rudimentali e la bocca non conteneva denti visibili.
Il naso era anch’esso in uno stadio di sviluppo incompleto ed era stato a sua volta sottoposto a intervento chirurgico, dando origine a un organo che appariva molto sottile e delicato. Gli occhi, quelli che mi colpirono sin da subito, mostravano tracce di un intervento chirurgico. Erano a mandorla, come ho detto, e rappresentavano la caratteristica facciale di gran lunga più spiccata. I bulbi oculari non erano sviluppati e apparivano suturati con lenti artificiali di tipo ignoto.
Il suo corpo esile, mi parse pesare poco più di quarantacinque chili.
E’ probabile che questo individuo non respirasse più di quanto mangiasse.
Il corpo di quell’essere emanava un forte odore d’uova marce che rendevano l’area circostante irrespirabile e nauseabonda.
Mi feci coraggio e cercai di non vomitare, anche se il mio stomaco con un sussulto mi era quasi arrivato in gola.
Il primo dei due esseri riuscì ad afferrare quello strumento a punta che mi sembrò essere una bacchetta di metallo e poco dopo una scossa elettrica mi pervase riportandomi nel mio stato d’impotenza.
Persi conoscenza. Mi risvegliai e mi riaddormentai.
Non sono in grado di dirvi dove mi trovavo. Mi sembrò fosse passata un’eternità dall’attimo in cui mi ero seduto all’interno dell’abitacolo della mia autovettura, nel vano tentativo di far riavviare il motore in avaria, al momento in cui ripresi conoscenza e mi specchiai dentro quegli enigmatici occhi neri ed a mandorla che mi fissavano e che appartenevano ad una creatura che non avevo mai visto se non in Tv, su Internet, in alcuni libri in cui si narrava di potenti esseri in grado di controllare lo spaziotempo e di effettuare dei viaggi interstellari nel più breve tempo possibile.
Mi ero da poco risvegliato quando mi accorsi di trovarmi all’interno di un cilindro di metallo.
Una specie di vibrazione allora percorse il mio corpo; c’era tanta luce nel cilindro di metallo. Poi, ad un tratto, qualcosa si staccò da me e cominciò a vibrare in aria.
Vedevo il luogo in cui mi trovavo dall’alto.
 Mi sembrava di notare la presenza all’interno di quella stanza di due cilindri, uno dei quali trasparente, ma entrambi posti in posizione verticale. All’interno del primo dei due cilindri si trovava il mio corpo, nell’altro la copia di me stesso.
Ebbi paura e persi nuovamente i sensi.
  

1.2. L’incontro con Ningishzidda.



Aprii gli occhi. Mi accorsi che giacevo su di un lettino metallico con mani e piedi legati. Ero cosciente e non più in quello stato catatonico assimilabile allo stato in cui si trova un drogato che si è appena fatto di eroina e che ha provveduto ad iniettarsela direttamente in vena. Ero in grado di muovere la testa, il tronco, e di cogliere meglio le linee sinuose della stanza in cui mi trovavo le cui pareti mi sembravano fossero realizzate con un metallo dall’aspetto lucente.
In tutta la stanza una luce biancastra, che fuoriusciva dalle pareti circostanti, assicurava una buona visibilità a quel luogo.
Sopra di me il tetto, curvilineo, sembrava fosse dello stesso metallo dei muri della stanza. Il pavimento, posto a circa quaranta centimetri dal lettino in cui ero costretto a stare immobile, mi sembrava che fosse composto da una strana lega metallica, dai riflessi quasi marmorei.
Si aprì una porta alla mia sinistra.
Entrarono all’interno della stanza in cui mi trovavo due Malachim, seguiti a breve distanza da un altro essere, alto oltre i due metri ed abbigliato come un antica divinità sumerica, dall’aspetto regale; sembrava che i due Malachim lo scortassero e fossero pronti a donargli la loro vita se si fosse presentata loro quell’occasione.
Si capiva che i due Malachim versavano in uno stato di sudditanza e/o soggezione psicologica verso quell’essere dalla barba rossa e folta, a cui piedi notai dei sandali in cuoio, ed abbigliato con un TUG.TU.SHE[7], finemente arricchito da una banda di lamina d’oro che metteva in evidenza delle braccia robuste e forti come quelle di un atleta pronto a partecipare alle Olimpiadi nella specialità del lancio del giavellotto.
Nella mano destra reggeva un bastone o uno scettro di media lunghezza, o almeno fu quello che mi parse di capire che fosse,  alla cui estremità era stato inciso un motivo ornamentale di particolare rilievo; in esso erano rappresentati  due grifoni che a loro volta sorreggevano due spade all’interno delle quali erano presenti due serpenti i cui corpi si incrociavano l’un l’altro, attorno ad un bastone.
Solo dopo seppi che quell’incisione rappresentava la doppia spirale del DNA e che era l’emblema di quell’essere. In testa un copricapo circolare gli copriva quelli che a me sembrarono i suoi capelli.
L’essere si avvicinò a me e disse: «Io sono Ningishzidda[8], figlio di EN.KI., esperto di genetica e di altre scienze.
Al tempo degli antichi egizi i tuoi simili mi chiamarono Tehuti (Thoth). Assieme ai miei seguaci, un giorno, dopo essere stato deposto da mio fratello Marduk[9], mi recai nelle Americhe e qui gli abitanti mi venerarono come Viracocha, ed infine Quetzalcóatl, Serpente Piumato, Kukulkàn.»
Risposi:
«Signore ho letto delle sue gesta e dell’epopea dei suoi simili in alcuni antichi testi accadici, tradotti nella mia era da alcuni studiosi della civiltà sumerica. Sono onorato e profondamente colpito del fatto che una potente divinità del passato, come lo sei tu, si possa interessare alle vicende di un umile mortale come me.»
Ningishzidda, dopo una breve pausa di riflessione, mi disse:«Sei stato scelto fra i tuoi simili per portare all’umanità la buona novella del mio ritorno.»
Ed io: «Ma perché, se sono un prescelto, mi trattate come se fossi un vostro prigioniero?»
Ningishzidda, solo allora, fece segno ad uno dei due Malachim che erano al suo fianco, ed in particolare all’essere che mi sembrò fosse il più alto fra i due, di liberarmi e permettermi di dialogare con loro in una posizione più consona ad un uomo libero.
Il Malachim non fece nulla di particolare per liberarmi ma diede ordine al sistema che mi imprigionava, telepaticamente, che io venissi liberato dalla morsa che mi teneva bloccati mani e piedi. Come per incanto mi liberai dal giogo che mi costringeva a rimanere immobile in quel lettino metallico. Cercai, istintivamente, di scappare ma fui subito bloccato dai due Malachim che mi convinsero ad ubbidire loro ed al loro supremo padrone.
I due esseri riuscirono a calmarmi, non sono in grado di dirvi come, quasi fossero in grado di comunicare con la mia Anima e non solo con la mia mente usando la loro potente forza telepatica di cui erano dotati i loro cervelli evoluti.
Ero rimasto esterrefatto di come quegli esseri riuscissero attraverso il pensiero, e senza usare uno dei nostri classici sensi, messici a disposizione da madre natura nella vita di tutti i giorni, a comunicarmi i loro desideri, la loro volontà, dimostrandomi per tutto il tempo che trascorsi con loro l’enorme potenzialità raggiunta dal loro cervello che, nella scala evolutiva degli esseri senzienti, si doveva collocare fra i primi posti.
Il fatto che i Malachim non usassero un linguaggio compatibile con quello umano e che si servissero della Telepatia come mezzo di comunicazione, denotava che non solo erano una specie intelligente, evoluta ed antica (tenuto conto che taluni sostengono che il linguaggio di cui noi umani ci serviamo altro non è che un retaggio del nostro passato, un po’ come lo è il pollice opponibile di cui siamo dotati), ma anche potente e alquanto temibile.
Solo allora mi ricordai delle parole che uno di loro proferì la prima volta che mi comunicò qualcosa ed istintivamente mi fu chiaro ciò che mi volesse comunicare.
In quei momenti, osservando quei due esseri che cercavano di rabbonirmi, ricordai di aver appreso un giorno, quando ancora mi trovavo sulla Terra, che la Telepatia altro non è che un extra senso di cui anche noi umani siamo dotati, sin dalla nascita, ma di cui, nel corso della nostra vita, pian piano e con lo sviluppo del linguaggio, ci priviamo, così perdendo, irreparabilmente, questa straordinaria facoltà. Il bambino sin da piccolo capisce che per farsi comprendere deve adattarsi a ciò che vede e sente; quindi il linguaggio diventa il mezzo che userà per comunicare assopendo così la funzione telepatica.
Ben presto mi fu possibile notare come i Malachim non solo usassero la Telepatia come mezzo di comunicazione, ma di come fossero in grado di spostare gli oggetti usando la forza della mente, capacità che a noi terrestri è nota come Telecinesi.
I due Malachim mi dissero che il loro Signore, Ningishzidda, mi aveva perdonato per quel mio insano gesto di darmi a precipitosa fuga, facendomi notare di come fosse padrone delle dinamiche che contraddistinguono il cervello dell’homo sapiens.
A quel punto Ningishzidda uscì dalla stanza in cui mi trovavo senza proferire parola. Rimasi solo con i due Malachim i quali mi condussero in un’altra stanza. Mi dissero che mi trovavo a bordo di una loro astronave, nota agli ufologi e ai governi di tutto il mondo per quella strana forma a sigaro che la caratterizzava e mi invitarono a riposare e a riprendermi. Mi chiesero di ingoiare una pillola e di bere l’acqua contenuta nel bicchiere che mi porsero. Mi addormentai. Entrai in un sonno profondo dai benefici effetti collaterali.

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[1] I Malachim erano gli angeli dell’Antico Testamento che apparvero ad Abramo e gli preannunciarono la distruzione di Sodoma e Gomorra. La venerazione degli angeli fu proibita dalla Chiesa nell’VIII secolo: il sinodo presieduto da papa Zaccaria accettò solo i nomi di Gabriele, Raffaele e Michele, mentre vietò tutti gli altri. Più tardi i cattolici stabilirono una gerarchia comprendente serafini, cherubini, troni, dominazioni, virtù, potestà, principati, arcangeli, angeli. Gli esseri che, nel libro di Daniele, combattevano gli uni contro gli altri, diventarono le schiere alate di Dio della pittura medievale e rinascimentale, mentre i diavoli grotteschi e burloni della Divina commedia finirono sui tarocchi. In questo gioco delle parti, non si sa più dove si addensi la luce e dove splendano le tenebre. Un noto libro di Karla Turner si intitola Masquerade of angels, ad indicare che creature dalle sembianze angeliche nascondono intenzioni ostili. Potrebbe essere vero, in qualche caso, anche il contrario.

[2] Zarathuštra, anche Zarathuðtra Spitâma (italianizzato Zaratùstra), traslitterazione dall'avestico Zaraèuštra, in pârsi ÒÑÊÔÊ, Zartosht; anche Zoroastro o Zoroastre, derivato dalla forma greca ÆùñïÜóôñçò (Zôroástrçs) di Zarathuðtra (IX-XVIII secolo a.C. – Bactra, IX-XVIII secolo a.C.), è stato un profeta emistico iranico, fondatore dello Zoroastrismo e autore delle cinque gâthâ raccolte nell'Avestâ. Non si conosce con precisione il luogo e il periodo in cui è vissuto il profeta iranico Zarathuštra. Gli studiosi collocano il personaggio storico Zarathuštra tra l'XI e il VII secolo a.C. Ipotesi più recenti, attestate da una verifica filologica e archeologica, ritengono tuttavia più plausibile una sua collocazione nell'Età del Bronzo tra il XVIII e il XV secolo a.C.. L'area geografica in cui si ritiene possa aver vissuto e predicato il profeta iranico è compresa tra gli odierni Afghanistan e il Turkmenistan.
[3] Ahura Mazdâ (avestico) è il nome dato all'unico Dio, creatore del mondo sensibile e di quello sovrasensibile, della Religione zoroastriana (anche Mazdeismo o Mazdaismo). Il nome significa "Spirito che crea con il pensiero" da:
Ahura: derivato dall'antico avestico anshu  nel significato di "respiro vitale" quindi collegato ad ansu (spirito) e da qui corrispondente al sanscritoasura, e all'antico germanico ansuz nonché al gotico ase, Æsir. Quindi come "Spirito che crea la vita"
Mazdā: derivato dalla radice indoeuropea *mendh che indica l'"apprendere". Quindi nel significato di "memoria" e "pensiero".
Da lui dipendono Spenta Mainyu (Santo spirito) e gli Ameša Spenta. Il nome della divinità varia leggermente in altre lingue iraniche:
Auramazdā in persiano antico;
Aramazd in parto e armeno;
Armazi  in georgiano;
Hourmazd, Hormizd, Hormuzd, Ohrmazd e Ormazd/Ōrmazd (اورمزد/ارمزد) sono traslitterazioni che si trovano in persiano medio e moderno.
[4] Deva(devanāgarī ,sanscrito vedico devá) è un termine sanscrito che come aggettivo indica ciò che è divino o celeste, mentre come sostantivo maschile indica la divinità o un dio. Raramente può indicare un demonio malvagio.
[5] Ahriman - uno dei nomi di Angra Mainyu, spirito malvagio nello Zoroastrismo.
[6] Cioè proveniente dalla costellazione di Zeta Reticuli, e quindi la tipologia di vita extraterrestre intelligente che appare più di frequente nelle moderne teorie del complotto ed in altri fenomeni paranormali correlati al fenomeno UFO, in particolare in alcuni famosi casi di rapimento alieno, come quello in cui rimasero coinvolti i coniugi Hill del New Hampshire.
[7]Al tempo dei Sumeri vi era già una ricca terminologia per indicare sia gli abiti sia coloro che li confezionavano. L'indumento base era chiamato TUG e rappresentava senza dubbio l'antenato, nello stile come nel nome, della toga romana. Il nome completo era TUG.TU.SHE, che significa, nella lingua sumerica, "indumento che si porta avvolto attorno al corpo". (Cfr pag. 43 del libro “Il pianeta degli dèi” di Z. Sitchin, Ed. Piemme Bestseller, ISBN9788856618235).
[8]Il nome sumero Nin.Gish.Zid.Da (o secondo la corretta traslitterazione: Nin.Iz.Zi.Da ) significa letteralmente Signore del manufatto della vita o Signore che detiene il fuoco della vita. Autori classici come Thorkild Jacobsen traducono invece come Signore del corretto albero. Figlio di Enki e di Ereshkigal, Ningishzidda apprese da suo padre EnKi, capo scienziato degli Anunnaki, le divinità adorate dai sumeri, i segreti della scienza, in particolar modo del linguaggio, della scrittura, della matematica, dell'edilizia, della medicina e, importante, della biologia. Fratello di Marduk, Gibil, Nergal e Dumuzi, é uno dei personaggi più enigmatici e meno documentati della stirpe Enkita. Alcuni autori sostengono che Ningishzidda fosse in realtà di sesso femminile in quanto la radice del suo nome, Nin, veniva usata salvo poche eccezioni (per esempio Ninurta) come epiteto femminile delle mogli degli dei o divinità femminili in genere con il significato di 'Signora', per esempio Ninlil, Ningal, Ninti, Ninhursag. Secondo alcune tavolette sumere Ningishzidda aiutò suo padre Enki nell'opera di creazione del primo Uomo, Adapa (il terrestre), chiamato dagli Anunnaki LuLu (il mescolato) o Lulu Amelu. Ningishzidda é anche accreditato secondo alcuni autori (tra i quali Zecharia Sitchin) come il progettista delle Piramidi di Giza, e la Sfinge di Giza avrebbe avuto in origine il suo volto.
[9] Marduk era il nome babilonese di una divinità della tarda generazione dell’antica Mesopotamia e divinità protettrice dell’antica città di Babilonia il quale, quando Babilonia divenne il centro politico della valle dell’Eufrate durante l’era di Hammurabi (II millennio a.C.), comincio ad acquisire maggiore importanza all’interno del pantheon babilonese, posizione consolidata nella seconda metà del II millennio a.C. Viene simboleggiato dal pianeta Giove ed il numero ad esso dedicato è il 50, attribuito precedentemente ad Enlil, di cui ormai fa le veci come re degli dèi.

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